La pubblicità sessista in Italia

“Tutti noi che per mestiere usiamo i mass media contribuiamo a forgiare la società. Possiamo renderla più volgare. Più triviale. O aiutarla a salire di un gradino”.

Sono queste le parole di Bill Bernbach, famoso pubblicitario statunitense tra i fautori della seconda rivoluzione creativa, citate all’interno del Manifesto Deontologico dell’ ADCI, manifesto scritto con l’intento di contribuire a modificare le modalità di comunicazione, impedendo la formazione di stereotipi negativi e il deterioramento della cultura collettiva.

Paradossalmente queste parole riaffiorano in un contesto pubblicitario italiano in cui il fine ultimo di vendere, e la mancanza del rispetto comune la fanno da padrone, sovrastando spesso le buone idee che girano nelle teste di molti geniali e intraprendenti creativi.

Non a caso lo stesso ADCI, Art Directors Club Italiano, organo che riunisce i protagonisti del processo di creazione dei contenuti pubblicitari, si è fatto sentire in questi giorni lanciando una petizione online contro i contenuti prettamente sessisti della pubblicità italiana.

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Secondo un sondaggio commissionato all’Istituto Piepoli nel marzo 2013, la nostra pubblicità purtroppo appare agli occhi di osservatori internazionali tra le più sessiste al mondo, nonostante lo stesso pubblico italiano abbia confermato la pochezza di contenuti e il totale dissenso verso i messaggi comunicati, ritenendoli dannosi e negativi.

In realtà c’è ancora chi pensa che lo scopo finale sia quello di vendere a tutti i costi.

A chi deve essere attribuita questa mancanza? Sarà colpa dei pilastri della pubblicità che hanno deciso di adattarsi al formato standard italiano accantonando l’idea di estrarre nuove idee geniali dal loro “cappello”, o dei grandi manager delle multinazionali che sarebbero disposti a tutto pur di vedere i propri prodotti all’interno delle case dei consumatori?

Accantonando per un istante l’aspetto sadico della critica, penso sia comunque triste navigare nel mare magnum della comunicazione dove tutto ciò che si fa è unicamente finalizzato a rendere profittevole il proprio business; dove luoghi comuni divertenti e “leggeri” si trasformano in veri e propri tormentoni che perseguitano nel tempo martellando costantemente il consumatore, o dove la bellezza soggettiva della donna non viene valorizzata in sé, ma viene standardizzata diventando un oggetto strumentalizzato da propinare alla massa.

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Citando nuovamente il Manifesto, “giudichiamo profondamente scorretto ridurre i corpi umani a oggetto sessuale da abbinare a un prodotto in modo incongruo e pretestuoso, al solo scopo di rendere quest’ultimo desiderabile.”

Il vero scandalo è l’incoerenza che ritroviamo nella censura di alcuni messaggi pubblicitari; quell’incoerenza che fa classificare la pubblicità italiana tra le meno libere di questo mondo.

Spesso idee divertenti ed efficaci vengono cassate perché ritenute offensive o lesive di non si sa quale comune senso del pudore, ma contemporaneamente si sorvola sulla mancanza di veli o allusioni chiaramente sessiste e sessuali nei confronti di donne-oggetto.

Del resto non ci sarà da stupirsi se a breve le città e i boschi in fiamme non verranno più salvati da innocenti scoiattoli affetti da complessi di aerofagia estrema, ma piuttosto da giovani pompieri donna che spogliandosi faranno esplodere tombini e impianti idrici delle zone limitrofe, spegnendo l’incendio e venendo premiate come eroine della città.

E se tutto ciò accadrà… sappiate solo che ve l’avevo detto e che ci avevo pensato ancora prima!

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La petizione promossa dAll’ADCI è online da lunedì 13 maggio. Potete trovarla QUI, o in home page del sito ADCI.

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